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Dis-istruzioni per l'uso

Dis-istruzioni per l'uso
Photo by Fons Heijnsbroek / Unsplash

Nell’ultima settimana mi sono trovata in quello spazio surreale in cui il corpo fa finta di funzionare ma il cervello ha già lasciato il gruppo. Mentre il mondo continuava a girare con la sua distopica disinvoltura capitalista, io mi spegnevo a intermittenza.

In questo numero parliamo di meltdown, shutdown e burnout autistico: non fenomeni passeggeri o fragilità individuali, ma risposte neurologiche a un mondo che pretende troppo e concede pochissimo. Spoiler: non è colpa nostra se il sistema nervoso centrale ogni tanto decide di fare reset.

Capire e definire

Come ho spiegato nel primo numero di questa newsletter, secondo gli studi più recenti ciò che determina la differenza fra persone autistiche e persone neurotipiche sono le connessioni neuronali. Nel cervello autistico, sono molto più numerose e sensibili: ciò fa sì che la percezione degli stimoli interni ed esterni sia molto più intensa, e possa talvolta provocare reazioni disordinate e imprevedibili.

Ecco perché a volte il cervello autistico si serve di meccanismi di autodifesa, utili a smaltire o prevenire un sovraccarico insostenibile. Un po’ come il salvavita, che interrompe il flusso di corrente non appena vengono captate delle anomalie che potrebbero sfociare in situazioni pericolose, come la folgorazione o un incendio.

Il meltdown è una reazione esplosiva ad un sovraccarico sensoriale, emotivo o cognitivo. Non è un capriccio, non è un attacco di panico, né tantomeno un comportamento manipolativo: è un cortocircuito del sistema nervoso che ha esaurito tutte le vie di compensazione. Non si “sceglie” di avere un meltdown, così come non si sceglie di starnutire quando si ha l’allergia. Semplicemente, scatta il salvavita: il cervello comunica al corpo che è necessario sbarazzarsi al più presto di una pressione che sta diventando eccessiva.

Il meltdown viene normalmente descritto a partire dall’osservazione di bambini e adolescenti autistici. Per questo, nella letteratura scientifica e nell’immaginario comune è spesso associato a comportamenti stereotipici quali pianto, urla, esplosioni di rabbia improvvisa, fuga, aggressività. Fortunatamente, in anni recenti la psichiatria si è finalmente ricordata che quei bambini e quegli adolescenti crescono, e che l’autismo non è una “condizione” passeggera: cresce e si evolve con loro.

In uno studio pubblicato nel gennaio del 2023, viene data visibilità alle diverse forme che il meltdown può assumere in età adulta. Oltre ai comportamenti osservati in bambini e adolescenti, in questa fase della vita molte persone descrivono un’esperienza chiamata camouflaged o internal meltdown.

Io faccio decisamente parte di quest’ultimo gruppo di adultә autisticә: vivo i meltdown come un’implosione. Mi è capitato raramente di manifestare comportamenti esplosivi. Quelle poche volte che è successo, mi sono concessa lancio di oggetti, sbattimento incontrollabile di porte e finestre, o pugni e grida contro il muro solo perché ero completamente sola e sicura di non essere osservata né giudicata. La maggior parte delle volte, i miei meltdown sono perlopiù interiori.

Solitamente, tutto si innesca a partire da un sovraccarico emotivo. Un’emozione particolarmente travolgente, che acuisce la mia ipersensibilità sensoriale. A quel punto tutto si autoalimenta, come in un loop infinito: la luce, i suoni, il contatto. Tutto diventa insopportabile, e l’emozione all’origine del sovraccarico si gonfia a dismisura, fino alla detonazione finale. Sento salire una marea interna inarrestabile – solitamente un misto di rabbia, irritabilità e frustrazione. La vista mi si annebbia, la testa comincia a girarmi, faccio fatica a respirare. Ma sono un’adulta, e per vergogna e decoro non posso lasciarmi andare. Quindi, di solito, mi ritiro in un posto sicuro e silenzioso in cui posso sdraiarmi, fare respiri profondi e piangere fino a che non vengo colta dal sonno.

Il tempo di recupero è variabile, in base all’intensità dell’episodio: da alcune ore a diversi giorni. Gli strascichi sono però sempre gli stessi, e includono nebbia mentale, lentezza di ragionamento, sfinimento fisico.

Personalmente, non faccio esperienza dei meltdown molto spesso. Mi definirei più un’esperta in materia di shutdown: almeno una volta a settimana, mi capita di spegnermi.

Lo shutdown autistico si presenta come un’impossibilità temporanea di interagire, comunicare o, semplicemente, funzionare. Anche in questo caso, i fattori scatenanti possono essere diversi e cumulativi: sovraccarico sensoriale, stress emotivo, situazioni sociali particolarmente impegnative. Quando non è più in grado di elaborare stimoli interni ed esterni, il cervello autistico reagisce schiacciando il bottone di spegnimento: è una semplice strategia di sopravvivenza.

Gli shutdown fanno parte della mia routine settimanale. Quasi sempre, mi colgono dopo ore di interazione sociale fuori di casa o quando mi trovo ad affrontare conversazioni particolarmente difficili da un punto di vista emotivo. Il primo segnale è una sorta di formicolio localizzato nella zona della fronte. Segue l’incapacità di mantenere il contatto visivo. Poi i muscoli cedono, come se si stessero sciogliendo. A quel punto cala il silenzio, come una specie di deserto interiore completamente bianco e muto. Non sono più in grado di parlare, né di muovermi. Sono totalmente dissociata da me stessa e da ciò che mi circonda.

Quando mi capita in pubblico, mi congedo il più velocemente possibile con un mezzo sorriso e corro a casa, bramando il silenzio, il mio cuscino e un lungo sonno. A volte, però, capita che lo shutdown sopraggiunga la mattina successiva ad un evento sociale. Quando succede, so che la giornata sarà difficile: farò fatica a muovermi, anche da una stanza all’altra; mi sarà impossibile concentrarmi; anche solo rispondere a un messaggio o ad una telefonata mi provocherà ansia e infinita stanchezza. Come nel caso del meltdown, i postumi dello shutdown possono protrarsi per giorni.

Ci sono però momenti in cui né meltdown né shutdown bastano più. Il corpo continua a funzionare per inerzia, ma dentro tutto è consumato. È lì che entra in scena l’ultimo dei tre moschettieri: il burnout autistico.

Si tratta di un esaurimento fisico, mentale ed emotivo particolarmente intenso, spesso accompagnato da una perdita di abilità normalmente consolidate. Viene spesso scambiato per depressione, ma ha radici diverse: deriva principalmente dall’effetto cumulativo del doversi orientare in un mondo progettato per le persone neurotipiche. Mesi – o anni! – di mascheramento dei tratti autistici, iperadattamento, iperproduttività forzata e stress sensoriale portano mente e corpo a dire basta. La capacità di eseguire semplicissime attività quotidiane (come lavarsi o cucinare) salta, la stanchezza cronica annebbia ogni cosa, gli input sensoriali diventano intollerabili, le interazioni sociali particolarmente difficoltose.

Il burnout autistico può protrarsi per mesi, a volte anni. Il problema principale risiede nel fatto che spesso viene mal diagnosticato come ansia, depressione o altri disturbi psichiatrici, precludendo la possibilità di affrontarlo con gli strumenti appropriati e uscirne in tempi ragionevoli. La buona notizia è che non è irreversibile. La cattiva è che richiede tempo, spazi sicuri, e la possibilità reale di non funzionare per un po’ – cose che il mondo in cui viviamo, in genere, non offre.

Più volte, nella mia vita, mi sono trovata incagliata in un burnout autistico senza saperlo. Non ero in grado di dargli un nome: depressione, stress, stanchezza cronica, fragilità insanabile. Priva di strumenti, ogni volta ne sono uscita a fatica, portandomi dietro una stanchezza emotiva e cognitiva difficile da descrivere. E puntualmente, il burnout è tornato e continua a tornare. Questo ciclo continuo ha lasciato segni profondi nella mia salute mentale. Segni con cui ancora oggi faccio i conti, anche nei periodi di quiete.

Sarebbe bello se ci fosse più consapevolezza su cosa sia davvero il burnout autistico. Ma sarebbe ancora più bello se non vivessimo come una colpa il tirarsi fuori dalla giostra impazzita della performance e della produttività.

Decostruire la vergogna

Nel libro “La città autistica”, Alberto Vanolo scrive:

In che senso un meltdown costituisce un problema? Certamente, si tratta di una situazione difficile perché la persona autistica entra in uno stato di sofferenza fisica ed emotiva. Inoltre, può esporsi a pericoli per la propria sicurezza o mettere a repentaglio quella delle persone vicine. Per alcuni soggetti, le crisi possono anche sfociare in comportamenti gravi, come quelli autolesionistici, con implicazioni drammatiche. Come evidenzia la letteratura, esistono però anche aspetti che hanno a che fare soprattutto con il contesto, e in questo senso riguardano l’organizzazione, il funzionamento, le atmosfere sociali della città. Si tratta per esempio di sentimenti umani come imbarazzo e vergogna.

Nel numero precedente di questa newsletter ho spiegato il concetto di relazionalità della disabilità. Nessunә nasce intrinsecamente disabile: siamo piuttosto disabilitatә da condizioni sociali e ambientali sfavorevoli, che non tengono conto delle nostre esigenze specifiche.

Il sistema sociale costruito attorno al capitalismo è difficile da navigare anche per le persone neurotipiche. Figuriamoci per chi ha una configurazione cerebrale diversa, che richiede spazi e tempi dilatati, ritmi e relazionalità differenti. Per noi, è una vera e propria lotta quotidiana alla sopravvivenza.

Ma la cosa ancor più drammatica – soprattutto per chi, come me, ha vissuto gran parte della propria vita senza sapere di essere autisticә – è che sin dall'infanzia siamo continuamente espostә a stimoli e modelli che glorificano la performance e la produttività. Specialmente in quanto adultә, siamo tenutә ad aderire alle regole del gioco e ad essere bravә lavoratorә e consumatorә. Sono questi, d’altronde, i parametri che determinano il nostro successo e la nostra validazione in quanto esseri umani.

I meltdown, gli shutdown e il burnout autistico rappresentano dei cortocircuiti in questo senso. Sono momenti in cui corpo e mente reclamano a gran voce il riposo. Momenti – più o meno lunghi – in cui si diventa improduttivә.

Fino a non molto tempo fa, vivevo i miei episodi di spegnimento o esaurimento con profondissima vergogna. Mi imbarazzava l’essere adulta e non saper gestire le mie emozioni e reazioni in maniera “normale”. Mi provocava disagio spendere ore – a volte giorni – senza essere in grado di fare nulla, se non dormire o fissare il soffitto. Mi vergognavo, perché non mi ritenevo degna e funzionale a sufficienza. Mi dicevo che non ce l’avrei mai fatta, che non sarei mai andata da nessuna parte.

Oggi invece vedo il mio autismo come una possibilità. La possibilità di conferire valore a corpi e menti “improduttivi” nel senso capitalistico del termine. La possibilità di sottrarmi, consapevolmente e con orgoglio, a un modello che misura la nostra esistenza in base a quanto produciamo, a quanto performiamo, a quanto resistiamo in questa corsa senza senso. E, soprattutto, la possibilità di immaginare altri modi di stare al mondo. Più lenti, più gentili. Dove il riposo non sia vergogna, ma diritto. Dove la fragilità non sia colpa, ma condizione umana.

È un lavoro lungo, pieno di inciampi. Ma ogni volta che smetto di chiedermi cosa non va in me e inizio a chiedermi cosa non va intorno a me, faccio un passo fuori dalla vergogna.

Per chiudere con le parole di Vanolo, voglio credere che “la nostra stranezza punk, con tutte le sue contraddizioni, cambierà il mondo.”

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Vademecum & consigli di lettura
Per chi volesse approfondire, ecco una guida pratica sul meltdown autistico e una sullo shutdown. Entrambe contengono consigli utili per chi vive da spettatorә esternә questi momenti delicati: amicә, familiari, caregivers, e chiunque abbia in qualche modo a che fare con persone autistiche. Sono entrambe in inglese. Non me ne vogliate: le risorse disponibili in italiano sono molto limitate, e quel poco che c'è è ancora ancorato ad un approccio e un linguaggio decisamente inadeguati.
Ma faccio ammenda consigliando una piccola gemma. Il libro "La città autistica", scritto da Alberto Vanolo e pubblicato da Einaudi, è un pamphlet di appena 100 pagine che mi ha entusiasmata. Vanolo è un urbanista, e con un piglio un po' queer e apertamente anti-capitalista immagina città e geografie sovversive, aperte alla sperimentazione di modi di vivere e stare insieme radicalmente nuovi.

Grazie per essere statә con me fino a qui. Se ti va, puoi condividere le tue riflessioni rispondendo a questa mail o lasciando un commento.

Ci si legge presto,

Camilla


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