Psicogeografie urbane di mezza estate
La scorsa estate, durante una lunga notte di inizio agosto, ho confidato ad un amico di amare particolarmente quel senso di vuoto che cala sulla città quando il periodo delle vacanze si avvicina. Eravamo sedutə in cima ad una piccola collina da cui, in silenzio e col naso all’insù, guardavamo le stelle cadenti accendersi e spegnersi sopra i tetti neri. “Ad agosto mi sembra sempre di avere più tempo”, ho bisbigliato.
So che per molte persone neurodivergenti l’estate rappresenta un incubo sensoriale ed emotivo, soprattutto in città. Il caldo torrido, quella sensazione insopportabile di vestiti sudati appiccicati alla pelle, le masse di turisti urlanti in ogni angolo. E poi quell’euforia sociale che impone di passare più tempo all’aperto tra feste-festini-eventi vari, con la difficoltà di dover dire “no” più spesso e il senso di colpa e inadeguatezza che ne conseguono.
Fino ad un certo punto dell’estate, questa descrizione rappresenta in maniera accurata anche la mia esperienza. Poi però succede qualcosa. Da qualche parte tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, comincio a percepire una sorta di rarefazione dell’atmosfera cittadina.
Il frastuono ossessivo del traffico viene pian piano sostituito dallo stridio ritmico delle cicale. Le strade e i marciapiedi d’improvviso si allargano: niente più macchine parcheggiate selvaggiamente, né persone in abiti da ufficio che corrono chissà dove sbattendo i tacchi sull’asfalto. I tramonti si fanno più morbidi, più silenziosi. Il tempo si dilata. La città sembra finalmente respirare, e io con lei.
Per molte persone autistiche, i comportamenti routinari rappresentano un’ancora di salvezza. Lo posso confermare: benedetta sia la mia routine quotidiana. Le mie mattine sono un concatenarsi di gesti e piccoli rituali che si ripetono tutti uguali giorno dopo giorno, dandomi sicurezza e stabilità. Anche le passeggiate col mio cane, pur rappresentando dei momenti di stacco dagli impegni più stringenti, hanno sempre una loro prevedibilità. Ogni giorno percorriamo le stesse strade, nello stesso ordine, sempre alla stessa ora.
Ma ad agosto qualcosa si allenta. Il mondo esterno si fa meno ostile, i miei confini mentali e corporei più porosi. Non solo succede che ho più voglia di camminare, ma di farlo senza meta, esplorando il mio quartiere come se lo vedessi per la prima volta. Anche spazi che di solito tendo a evitare – il parco nel pomeriggio, ad esempio, che normalmente è un concentrato di rumori, corpi, urla e stimoli sovraccaricanti – diventano accessibili, piacevoli. Posso attraversarli senza fatica, fermarmi a osservare la luce che filtra tra le foglie degli alberi, scegliere una panchina e restarci seduta finché mi va senza sentirmi assediata.
È come se il mondo, depurato dalla sua iperattività sociale e performativa, diventasse più a misura mia. E in quello spazio rarefatto, mi scopro desiderosa di esplorare.
In questi giorni di apparente sospensione mi viene in mente il concetto di psicogeografia.
Nel libro “La città autistica” (che avevo già entusiasticamente consigliato nel precedente numero di questa newsletter), Alberto Vanolo descrive la psicogeografia come un “insieme di tecniche e strategie per l’esplorazione dello spazio urbano che enfatizza l’idea di perdersi e aprirsi alla casualità degli incontri e delle possibilità”.
La deriva è lo strumento principale di questa pratica: lasciarsi guidare da un istinto, da un dettaglio, da qualcosa che attira, e abbandonare le ragioni abituali del movimento – lavoro, doveri, efficienza – per costruire nuove situazioni, nuovi sensi.
Ora: tutto questo sembra, almeno in apparenza, poco compatibile con un cervello autistico. Troppe incognite, troppi stimoli imprevisti, troppa esposizione. Eppure ad agosto, nella città svuotata, il mio corpo e la mia mente si sentono al sicuro. Riesco ad andare in giro senza percorsi prestabiliti. Sento il desiderio di fare lunghe passeggiate nel cuore della notte. Mi siedo a contemplare il tramonto dalla collina più alta del mio quartiere senza mai controllare l’orologio.
La voglia di sperimentare, di farmi attraversare dal paesaggio urbano, prende il posto del bisogno di controllo. E allora mi chiedo: quanti dei miei “tratti autistici” sono davvero innati e quanti sono, invece, risposte di sopravvivenza a un ambiente ostile?
Se la routine, la rigidità, l’iper-pianificazione si allentano quando il mondo si fa più quieto, forse non sono tratti “naturali”, ma delle strategie. Una forma di protezione. Una modalità necessaria per tenere insieme i pezzi in un ambiente troppo caotico, troppo rapido, troppo esigente per chi ha ritmi e percezioni diverse.
E allora torno a Vanolo, quando scrive che il progetto di città autistica
non riguarda solamente dimensioni sociali e culturali, e non si riduce alla necessità di educare e far maturare una cittadinanza tollerante, inclusiva, informata e aperta alle molteplici forme della neurodiversità, o di garantire alle persone autistiche l’accesso a spazi, risorse, esperienze e servizi. Il progetto ha una dimensione politica assai più radicale che riguarda l’invocazione di un diritto alla città, l’orgogliosa affermazione di una presenza e di una differenza, il confronto fra modi radicalmente diversi di fare le cose o di vivere lo spazio urbano.
In questo senso, l’esperienza autistica può essere un’alternativa generativa. Una forma di resistenza. Un detour rispetto alle logiche alienanti della vita urbana: un disallineamento cosciente rispetto ai tempi produttivisti, alla frenesia capitalista, alla pressione continua verso prestazione e consumo.
Quanto potrebbe far bene, a tuttə, vivere in una città autistica?
Sommersə si prende una pausa e torna a fine estate. Ci auguro un agosto lento e silenzioso, che nella mia testa suona così:
Grazie per essere statә con me fino a qui. Se ti va, puoi condividere le tue riflessioni rispondendo a questa mail o lasciando un commento.
Ci si legge a settembre,
Camilla
🪼Sommersə è per sua natura gratuita, e sempre lo sarà. Credo profondamente nell’accessibilità e nella condivisione libera del sapere.
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